lunedì 7 gennaio 2008

UN RACCONTO: JOE E SARAH, ATTO D'AMORE

Sarah guarda l’orologio. Le due del pomeriggio, già passate da un paio di minuti.
Il tempo scorre veloce e fluido. Stagioni che passano lasciando qua e là qualche traccia in questo mondo, che a volte è ingiusto, a volte ti fa rimanere a bocca aperta, ti fa sorridere o scontrare con persone che potrai amare come odiare. Momenti in cui puoi sognare liberamente si alternano ad altri, dove vi è solo buio, nero, notte.
Lei li ha vissuti tutti.
E adesso, o in quegli ultimi mesi, non può fare a meno di guardare la gente che le passa accanto e chiedersi quanti di loro avrebbero agito come lei ha agito. Quanti avrebbero avuto davvero il coraggio?
Non si sente in colpa, ne a disagio.
Ma il brusio dell’aula di tribunale, il ticchettio dell’orologio e l’attesa l’aiutano a ricordare...

"Non sai quante cose mi hanno raccontato sull’America. Sarebbe bello visitarla, andare a New York, in California. Potremmo…".
La dolcezza di quella voce è incredibile.
"Cavoli, l’America, beh, non è dietro l’angolo".
"Come al solito fai la difficile".
"No, Joe, non faccio la difficile. Sono realistica. Costa un sacco di soldi la vita in quel posto... e poi non sarà mica il Paradiso!".
"Che sciocca che sei. E sei anche parecchio egoista. A me non pensi mai, vero?".
"Ehi, ma cosa dici.
..".

Forse non dovrebbe ricordare. Ma non ha la forza di reprimere quei pensieri. Man mano, una alla volta, riemergono. Sono ricordi senza radici che comunque sopravvivono, ricordi di una sorta di condannata a morte nella sua ultima notte.
Joe, la sua compagna, pare essere ancora lì, al suo fianco. Le sembra di sentire le sue mani sulle spalle, le braccia che le circondano la vita, quel sorriso...

"Si può sapere che cosa è successo? Che è quella faccia?".
Joe la guarda. Basta questo per risollevarle il morale.
"Lo so, hai ragione, un casino. Tuo fratello è un idiota".
"Che c’entra Stefano?".
"C’entra. Gli ho detto che ci piacerebbe andare in America. Non avrei dovuto farlo. Si è incazzato come una bestia. Poco ci è mancato che ci prendessimo a sberle".
"Dio mio, Elettra. Ma perché non cercate di andare d’accordo?".
"Perché è una causa persa".
"Anche il nostro rapporto?".
"Ma dai, Joe, come puoi solo pensare...":
"Non lo so, sei strana. Non c’è nessun altro, vero?".
"No, tesoro, no. Te lo giuro. E’ vero, non sono una santa, ma non voglio rovinare tutto".
"Lo pensi veramente?".
"Sì, certo".
Dolce bacio sulle labbra.
"Ehi, Joe, me lo fai un sorriso?".
Joe sorride. Ed è il più bel sorriso del mondo.
"Sei perdonata. E anche fortunata. Perché ti amo troppo per avercela con te".
"Anch’io ti amo, Joe. Amo te, il mondo, tutti quanti
".

Non è affatto vero che ama il mondo e tutti quanti...
E’ nell’aula di tribunale, sì. Il suo corpo è seduto al banco, ma la sua anima non c’è. La sua anima è tornata in quell’ospedale, nella stanza, tra il suono stridulo delle macchine e l’odore acre dei medicinali.
Li sente ancora e i suoi nervi si tendono come corde di violino.
Che cosa ci faceva Joe lì? Perché proprio lei? Non aveva mai fatto del male a nessuno... quell’uomo, quel bastardo che l’ha investita ed è scappato lasciandola in mezzo ad una strada merita una punizione. Lo odia. Lo odia e prova una gran pena, perché magari ha una moglie, dei figli.
Intanto Sarah rischia dieci anni di galera. Dieci lunghi anni in una cella. Dieci anni perché aveva aiutato la persona che amava ad andarsene.
Ma a Sarah non gliene frega un cazzo della prigione. Se vogliono rinchiuderla che lo facciano, perché la sua vita che cosa sarebbe?
Gli echi rimbombano nella sua testa.
E gran parte di quelle parole vanno perdute...

"Quindi lei ammette di aver staccato la macchina che alimentava artificialmente Joe Mancuso".
La voce dell’avvocato dell’accusa.
"Sì".
"Amava Joe Mancuso, signorina?".
"Certo".
"Ne è sicura?".
"Le dico di sì".
"E allora perché l’ha uccisa?".
"Io non l’ho uccisa. E’ stata lei a chiedermi di farlo".
Baccano.
Un ragazzo si alza in piedi. E’ Stefano, il fratello di Joe.. Piange.
"Sei una bugiarda!" urla "Sei solo un infame bugiarda, Sarah!".
Il rumore del martello del giudice.
"Ora basta, ordine!".
"Vostro onore, questa donna mente, mia sorella...".
"Portatelo via".
Confusione.
Due guardie lo afferrano.
Lui continua ad urlare mentre lo trascinano fuori di peso.
La porta sbatte.
L’accusa riapre il fuoco.
"Signorina, assume droghe?".
"No".
"Mai assunto droghe prima?".
"Mai".
"Neanche quel giorno le aveva prese?".
"Non le ho mai prese, non so che cosa dirle".
"Vostro onore, ritengo l’imputata alquanto reticente".
Mormorii in aula.
"Non ho altre domande".

Rumore di porte che si aprono e fruscii di toghe.
Passi.
L’anima di Sarah torna nel corpo.
L’immagine del giudice dapprima è offuscata. Poi i contorni si delineano. E’ alto, spalle larghe e il suo viso ricorda quello scolpito sulle tombe dei faraoni egiziani.
Alza la testa e guarda i presenti, dall’alto della sua potenza.
La voce viene dal profondo di una caverna.
- La corte ha raggiunto il verdetto? – chiede.
Silenzio.
Dura qualche secondo.
L’incaricato si schiarisce la gola. In mano ha un foglietto bianco.
- Sì, vostro onore -